Bentornati,
Siamo giunti alla terza fase del mio incredibile percorso, quella della permanenza in ospedale. Se avete letto il precedente articolo (se ancora non l'avete fatto, potete trovarlo QUI), saprete che il mio viaggio ha attraversato un periodo di coma durato ben 12 giorni, causato dalla doppia frattura dell'osso frontale e da un enorme ematoma. Fortunatamente, l'ematoma si è riassorbito e dopo giorni trascorsi nel reparto di rianimazione dell'Ospedale Maggiore di Bologna, finalmente è arrivato il momento del mio trasferimento nel reparto ordinario per continuare con la guarigione dopo l'incidente in moto.
Il giorno prima del trasferimento, i medici, di fronte ai livelli altissimi di infezione che mi affliggevano, decisero di sperimentare un trattamento chiamato "Vac Terapy". Ma cosa comportava esattamente questa procedura? La mia amputazione al di sotto del ginocchio (transtibiale) era ancora aperta e venivano inserite delle spugnette nella ferita, successivamente avvolte da una speciale pellicola sottovuoto. Una macchina era collegata a tutto il sistema, filtrando continuamente il sangue per cercare di purificarlo dalle infezioni. Non posso negare che, descritta in questi termini, la Vac Terapy non sembrasse particolarmente dolorosa o invasiva.
Ma purtroppo, ogni due giorni, doveva essere effettuata la medicazione. E che cosa comportava quest’operazione? Consisteva nell'aprire la pellicola sottovuoto, rimuovere le spugnette, pulire accuratamente la ferita del moncone non ricucito, sostituire le spugne pulite e richiudere tutto il sistema. Vi chiederete come ci si sente in quel momento. Avete presente quando si sbatte il gomito contro uno spigolo e si prova quella scossa dolorosa che dura solo qualche istante? Ecco, quello che si prova durante la medicazione è esattamente quella sensazione, ma invece di durare solo qualche istante, si protrae dolorosamente per circa trenta minuti. La ferita è aperta, i nervi recisi sono scoperti e il dolore è lancinante. La prima medicazione mi fu eseguita nel reparto di rianimazione, dove avevo la possibilità di attenuare il dolore con la morfina. Ma una volta trasferito nel reparto ordinario, non mi fu più consentito di utilizzare antidolorifici così potenti, a causa delle restrizioni del regolamento. Ogni giorno, vivevo un tormento, un terrore anticipato per la medicazione e un altro terrore il giorno successivo, sapendo che mancava solo un giorno per affrontarne un'altra. Era un vero e proprio incubo.
Il trasferimento nel reparto ordinario, sebbene in quello geriatrico dovuto alla mancanza di posti, mi diede un senso di sollievo immenso. Sembrava quasi una dimissione, mi sentivo più libero, ma in realtà la libertà ancora tardava ad arrivare. Devo confessare che fino a quel momento non avevo mai sperimentato una degenza ospedaliera, neppure in un day hospital; quindi, per me si trattava di un'esperienza totalmente nuova. Non amando particolarmente le novità, sia quelle positive che quelle negative, mi trovai a dover affrontare una difficoltà mostruosa dal punto di vista mentale. Sentirmi in gabbia, privo di libertà e impossibilitato a uscire mi era insopportabile.
In quei giorni, Barbara è stata la mia colonna portante. Non le era concesso crollare, poiché ciò avrebbe potuto provocare un effetto a catena devastante. La caposala del reparto si dimostrò molto comprensiva e ci permise di posizionare una poltrona nella camera a lato del mio letto. Barbara poteva rimanere con me per l'intera giornata e addirittura dormire sulla poltrona vicino a me. Questo era di vitale importanza per me, perché lei era tutto per me. Non riuscivo a stare senza di lei neppure per cinque minuti. Ogni tanto, Barbara doveva tornare a casa per fare una doccia e/o rilassarsi per una mezz'ora, ma appena lasciava la camera, io precipitavo in un profondo panico. Il tempo sembrava non passare mai, ore ed ore sembravano trascorrere, la chiamavo al telefono e lei, stupita, mi rispondeva dicendomi che erano trascorsi solo quei pochi minuti necessari per raggiungere la macchina nel parcheggio. Era un disastro per me. Ma avevo le "mie" donne, quelle importanti che lavoravano instancabilmente per il mio bene e per accelerare la mia guarigione. Ero molto agitato in quei giorni, tormentato dai dolori e dall'infezione ancora in corso. Avevo una siringa gigante di antibiotico collegata a me per l'intera giornata. Gli antibiotici, come spesso accade, provocavano un effetto collaterale molto comune: la diarrea. Ebbene sì, non fui risparmiato da questo fastidioso effetto collaterale.
Le giornate in ospedale trascorrevano lente, estremamente lente. La mattina, sveglia alle sette, colazione, cambio della biancheria del letto e inizio delle varie visite mediche. Per quanto riguarda la biancheria, avevo chiesto espressamente a mia madre di portarmi i miei cuscini personali e ogni giorno le federe, lavate e profumate, direttamente da casa. Doveva usare abbondantemente l’ammorbidente, perché quel profumo mi ricordava casa. La notte, quando mi svegliavo, sentire quell’odore mi donava un sollievo incredibile. I primi giorni, continuai ad avere allucinazioni, soprattutto di notte. Appena chiudevo gli occhi, la mia mente iniziava a dipingere pensieri ed immagini che si susseguivano freneticamente. Pareti illuminate da un mare di luci natalizie, miliardi di lampadine che brillavano ovunque e bambini che disegnavano su ogni superficie, come se stessero creando una vivace opera d'arte in stile Keith Haring.
Questa situazione mi faceva impazzire, mentalmente non riuscivo a riposare, sembrava che non dormissi mai. Le allucinazioni proseguirono per circa una settimana, tanto che i medici mi prescrissero l'Aloperidolo. Si tratta di un farmaco utilizzato per trattare disturbi che influiscono sul pensiero, la percezione e il comportamento, come disturbi bipolari, disturbi del comportamento e schizofrenia. La cosa mi spaventò un po', poiché inizialmente non avevo collegato questi disturbi alla morfina. L'amputazione aveva indebolito il mio corpo e specialmente tutto l’apparato muscolare, sia a causa dei 12 giorni di coma che della mancanza di forza nei muscoli della mia gamba sinistra, che non erano abbastanza robusti per sostenere il mio peso in posizione eretta. La prima volta che provai ad alzarmi, la testa cominciò a girare. Forse non ero ancora pronto. Barbara, con pazienza infinita, mi aiutò a superare queste difficoltà temporanee. Dovevamo solo riorientarci, trovare una nuova strada da percorrere e iniziare il cammino.
Le prime tre settimane nel reparto furono estremamente complicate. I medici, con cautela, non si esponevano mai riguardo alla mia amputazione. Sostennero che la situazione non fosse ancora stabile. Tuttavia, un odore sgradevole che fuoriusciva dalla ferita e un peggioramento progressivo del mio stato di salute portarono a una decisione drastica: era necessario intervenire con una seconda amputazione. L'annuncio di questa notizia fece crollare il mio mondo interiore, tutto sembrava franare su di me. I tre giorni che precedettero l'operazione sembrarono i giorni finali di un condannato a morte. Questo fatto mi prosciugò completamente di ogni energia, la mia mente smise di funzionare e il mio spirito combattivo fu sconfitto da questa tragica rivelazione. Tuttavia, anche in quel momento, Barbara si rivelò la mia roccia, aiutandomi in qualche modo a sopravvivere quei tre giorni fino all'operazione della seconda amputazione.
Il dottor A., il chirurgo ortopedico dell'Ospedale Maggiore di Bologna, fu il medico che mi operò in tutte le occasioni. Era stato di turno al Pronto Soccorso quando fui trasportato in ambulanza in condizioni critiche. Il dottor A., in quel periodo molto giovane, forse intorno ai 38-40 anni, si prese a cuore la mia situazione e decise di seguirmi e operarmi in ogni fase del percorso. Durante la visita con il primario, il Doc.A. fu presente in stanza, dimostrando grande sensibilità e tatto nel cercare di spiegarmi la situazione. Quella conversazione che ebbi con il mio ormai fidato ortopedico divenne una mia personale, utilizzata con tutte le persone che ho incontrato nelle stesse circostanze. Capire pienamente quelle parole in quel momento non fu facile, anzi, fu estremamente difficile. Ma col passare del tempo, la mia mente le accettò e capì che quella era l'unica via possibile. Il Doc mi disse:
"Sono consapevole dell'importanza del ginocchio come articolazione, ma devi comprendere che un ginocchio malato e non funzionante non è utile per la tua vita. È un problema che ti logorerà, non serve a nulla un ginocchio non funzionante. Paradossalmente, capirai che con una protesi ben fatta, potrai fare praticamente tutto."
E devo ammettere che il dottor A. aveva ragione. Un ginocchio che non funziona non serve a nulla.
Desidero sottolineare un concetto fondamentale di questo articolo, soprattutto nella fase finale. A volte, la nostra mente si perde per qualche motivo inspiegabile. Ma col passare del tempo, magari attraverso errori ed esperienze vissute, riconsideriamo concetti che al momento non riusciamo a comprendere appieno.
Grazie, dottor A.
Continua a seguire il mio viaggio straordinario verso la rinascita.
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